Mario Rapisarda (cambiò il cognome in Rapisardi, in omaggio a uno dei suoi autori preferiti, Leopardi) nacque a Catania il 25 febbraio 1844.
Studiò dai Gesuiti e, oltre ad amare la letteratura e la storia, suonava discretamente il violino e coltivava la pittura.
Nel ’59 esordiva con l’Ode a Sant’Agata, vergine e martire catanese. Lettore appassionato di Alfieri, Monti, Foscolo, Leopardi e di vari autori risorgimentali, scrisse, ancora adolescente, un Inno di guerra agli Italiani e l’incompiuto poemetto Dione, nella cui prefazione esalta le battaglie di Solferino, Palestro e Magenta, partecipando così all’atmosfera politica di quei mesi, che pose fine alla monarchia borbonica.
Per accontentare il padre, frequenta un corso di giurisprudenza, ma non giungerà a laurearsi. Invece lo interessa moltissimo lo studio dei classici greci e latini, che gli suggeriscono le prime traduzioni, le ricerche filologiche e filosofiche di carattere positivistico. Frutto di questo periodo formativo il poemetto Fausta e Crispo e i Canti.
Nel ’65 parte per Firenze, allora capitale del Regno, per il centenario della nascita di Dante e qui, in un clima acceso da fermenti mazziniani e repubblicani, stringe amicizia coi poeti Dall’Ongaro, Prati, Aleardi, Fusinato, Maffei, col dotto Pietro Fanfani, con l’orientalista De Gubernatis e con altri importanti artisti e intellettuali.
Nel ’68 pubblica il suo primo poema, La Palingenesi, dove condanna la corruzione del clero e difende l’azione moralizzatrice di Lutero, prospettando col connubio arte-scienza il ritorno del cristianesimo alla purezza originaria; da allora venne soprannominato “il Vate”.
Il poema così esordisce:
“Sia principio da te, luce inconsumata
di verità: coeva a Dio tu splendi
per la notte dei tempi”
Il successo dell’opera echeggia anche all’estero (Victor Hugo è tra i più significativi estimatori), mentre il municipio di Catania assegna all’autore una medaglia d’oro e il ministro Correnti lo chiama a insegnare letteratura italiana nell’ateneo catanese.
Nel ’72 escono i versi de Le Ricordanze che, pur nei limiti dell’imitazione leopardiana, rivelano una genuina vena intimista. Uno studio critico su Catullo gli vale nel ’75 la nomina a professore straordinario di Letteratura italiana e l’incarico di Letteratura latina all’Università di Catania.
Già da qualche anno il poeta è dedito alla stesura del suo secondo poema, il Lucifero, ispirato dalla crisi di ateismo che colse il poeta e dalle Guerre de Dieux del Parny, ma anche da Milton e dal carducciano Inno a Satana. Il poema, in 15 canti, quasi 10.000 versi, resta l’espressione più significativa della poesia italiana d’indirizzo positivista.
Esordisce così il poema:
“Dio tacea da gran tempo. Ai consueti
balli moveano in ciel gli astri, e con dura
infallibile norma albe ed occasi
il monotono Sol dava a la terra”
Lucifero è l’Eroe, che, non ascoltando gli ammonimenti di Prometeo, sale sulla Terra per incarnarsi e dare salute all’uomo e morte a Dio. Per il Lucifero l’arcivescovo di Catania ordinò, pare, un autodafé del libro. Insignito del titolo di Cavaliere della Corona d’Italia (per aver celebrato, nell’XI canto del poema, le guerre d’indipendenza e l’ossario di Solferino) e nominato professore ordinario di Letteratura italiana e latina dal ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis, che lo stimava, Rapisardi pubblica nell’83 i versi sociali (e sarcastici) di Giustizia, che trovarono vasti consensi (suo epicentro sta nel Canto dei mietitori). Quest’opera nel 1924 sarà addirittura proibita dalla politica fascista.
Nell’84 usciva il poema Giobbe, altro lungo poema, canta il duro cammino dell’umanità infelice (simboleggiata dall’eroe biblico) che è il suo capolavoro. I distici dove il personaggio grida a Dio la sua disperazione (libro III della parte I) toccano altezze forse ineguagliate nella poesia italiano del secondo Ottocento.
Nell’87 dà alle stampe le splendide Poesie religiose, forse il suo vertice lirico, cui seguono i cesellati Poemetti (’92) e gli Epigrammi (’97), nonché delle impegnative traduzioni di opere di Catullo, Shelley e Orazio, anche se la cosa più importante resta la traduzione e lo studio critico del poema La natura di Lucrezio (’79).
Nel ’94 pubblica il suo quarto e ultimo poema, L’Atlantide, dove, ispirandosi ai Paralipomeni del Leopardi, disegna nelle vicissitudini del poeta Esperio la società italiana lasciva e inetta, additando nella corruzione il principio dei mali. Nel mentre disprezza la borghesia, canta le figure di Newton, Darwin, Pisacane, Marx, Cafiero e altri grandi della storia universale. Denuncia con lucidità e coraggio la criminale politica del governo Crispi (vedi la repressione dei “fasci siciliani”), nella prefazione a Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause (’94) e nel dialogo Leone (’95), che spiegano le feroci repressioni dei moti contadini e operai, nonché nel pamphlet Africa orrenda (’96) e in alcune poesie, avverse al truculento colonialismo. Con caricature o versi siciliani, metteva in berlina amici o chi non gli andava a genio.
Negli ultimi anni si chiude in un silenzio ostinato, indifferente agli onori dei concittadini, che superano di gran lunga quelli tributati a Verga, De Roberto, Capuana… Non lo toccano neppure le critiche di molti studiosi (specialmente il Croce), anche se tra le sue carte si sono trovati feroci epigrammi a gran parte dei letterati dell’epoca: Fogazzaro, Croce, Pascoli, Carducci, D’Annunzio.
Egli muore nel 1912 a Catania: al suo funerale parteciparono oltre 150.000 persone, con rappresentanze ufficiali che giunsero addirittura da Tunisi. Catania tenne il lutto per tre giorni. Nonostante questo, a causa del veto opposto dalle autorità ecclesiastiche, la sua salma rimase insepolta per quasi dieci anni in un magazzino del cimitero comunale.
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